CHRISTIAN BOBIN
(Le Creusot, 24 aprile 1951 – Chalon-sur-Saône, 24 novembre 2022)
C’è la parola e c’è un deserto, perché nel Libro le acque del mare di Giunco si separano così profondamente da lasciare il paesaggio asciutto. Paesaggio di rocce, aria e luce. Cammino verso l’alto anche da oltre le rive di un lago, al largo. Cammini d’altura. Da cui viene pronunciato un nuovo fiat in un discorso di montagna: Beati!
Identico l’incipit che il Suo Spirito aveva donato al Suo popolo per riceverne preghiera. “Beati gli uomini”; ad essi canta il primo dei Salmi.
‘Ashrê.
Tra le due beatitudini, un solo, immenso, istante di luce.
Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi. Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine. Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui. Quando scrivono hanno sessant’anni di ritardo sull’evento del suo passaggio. Noi ne abbiamo molti di più: duemila. Tutto quanto può essere detto su quest’uomo è in ritardo rispetto a lui. Conserva una falcata di vantaggio e la sua parola è come lui, incessantemente in movimento, senza fine nel movimento di dare tutto di se stessa. Duemila anni dopo di lui è come sessanta. È appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l’ingiuria: tutto riceve in faccia senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine. L’umano è chi va così, a capo scoperto, nella ricerca mai interrotta di chi è più grande. E il primo venuto è più grande di noi: è una delle cose che dice quest’uomo. È l’unica cosa che cerca di inculcare nelle nostre teste grevi. Il primo venuto è più grande di noi: bisogna scandire ogni parola di questa frase e masticarla, rimasticarla. La verità la si mangia. Vedere l’altro nella sua nobiltà di solitudine, nella bellezza perduta dei suoi giorni. Guardarlo nel movimento del venire, nella fiducia in questa venuta. È quanto si sfianca a dirci, l’uomo che cammina: non guardate me. Guardate il primo venuto e basterà, e dovrebbe bastare. Va dritto alla porta dell’umano. Aspetta che questa porta si apra. La porta dell’umano è il volto. Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno. Nei campi di concentramento i nazisti proibivano ai deportati di guardarli negli occhi, sotto pena di morte immediata. Colui cui non accolgo più il volto - e per accoglierlo bisogna che io lavi il mio volto da qualsiasi residuo di potenza - quello io lo svuoto della sua umanità e me ne svuoto io stesso. È ebreo da parte di madre, ebreo da parte di padre, eternamente ebreo per quel suo modo di andare ovunque senza trovare da nessuna parte un rifugio, meravigliosamente ebreo per quel suo amore infantile per gli indovinelli, come l’uccello che con il canto pone interrogativi e per tutta risposta riceve una pietra e canta ancora, anche morto canta, ancora, ancora, ancora, anche molto tempo dopo che la pietra che l’ha ucciso è tornata friabile, polvere, meno che polvere, silenzio, meno che silenzio, nulla, e sempre permane questa vibrazione del canto puro nel nulla manifesto del mondo. Ciò che dice è illuminato da verbi poveri: prendete, ascoltate, venite, partite, ricevete, andate. Non parla per attirare su di sé un briciolo d’amore. Quello che vuole, non per sé lo vuole. Quello che vuole è che noi ci sopportiamo nel vivere insieme. Non dice: amatemi. Dice: amatevi. Un abisso tra queste due parole. Lui è da un lato dell’abisso e noi restiamo dall’altro. È forse l’unico uomo che abbia mai davvero parlato, spezzato i legami della parola e della seduzione, dell’amore e del lamento. È un uomo che va dalla lode alla disaffezione e dalla disaffezione alla morte, sempre andando, camminando sempre. Non fa dell’indifferenza una virtù. Un giorno grida, un altro giorno piange. Percorre l’intero registro dell’umano, l’ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici. È tenero e duro. Spezza, brucia e riconforta. La bontà è in lui come una materia chimicamente pura, un diamante. Dice di essere la verità. È la parola più umile che esista. L’orgoglio sarebbe di dire: la verità, ce l’ho. La possiedo, l’ho messa nello scrigno di una formula. La verità non è un’idea ma una presenza. Nulla è presente fuorché l’amore. La verità: egli lo è per il suo respiro, per la sua voce, per il suo modo amorevole di contraddire le leggi di gravità, senza farci caso. Questa è la figura del più grande re d’umanità, dell’unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice. Il mondo non poteva sentirlo. Il mondo sente solo quando c’è un po’ di rumore o di potenza. L’amore è un re privo di potenza, Dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno.Qualcosa prima della sua venuta lo intuisce. Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui. Questo qualcosa è la bellezza sulla terra. La bellezza del vivere è composta dall’invisibile fremito degli atomi spostati dal suo corpo in cammino. Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno. Lui lavora i cuori, diversi e più duri del legno. Alcuni si associano al suo lavoro. Con fatica li forma ai princìpi di una nuova economia: non si fa nulla in serie, si va dall’unico all’unico. Non si vende, si regala. Parla spesso di suo padre. Un adulto che parli di suo padre è un uomo che riscalda un’ombra. Con lui è diverso. Da come ne parla, si direbbe che suo padre non appartiene al passato ma al futuro.